ANTONIO CAPALDO

Nato a Campo di Giove (AQ) il 14 Luglio 1948, montanaro doc, ha trascorso la sua adolescenza alle falde della Maiella in stretto contatto con la natura in un mondo prevalentemente agricolo e pastorale.
Dopo le scuole superiori è entrato in Accademia Aeronautica superando il Corso e conseguendo il brevetto di Pilota Militare in America presso una scuola di volo USAF.
Ha prestato servizio in Aeronautica per 19 anni presso la Base di Pisa come pilota sul C-130, dove ha avuto l’ opportunità di girare il mondo effettuando diverse missioni umanitarie.
Successivamente è stato trasferito nella Scuola di Volo di Latina in qualità di istruttore ed esaminatore di volo e ricoprendo l’incarico di comandante di Gruppo; dopo due anni di servizio presso lo Stato Maggiore Aeronautica si è congedato.
Uomo di poche parole, attualmente il Comandante Antonio Capaldo, è uno dei piloti dei Canadair della Protezione Civile che ogni anno combattono la battaglia degli incendi.

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IL MIO RIDENTE PAESELLO

Campo di Giove è arroccato su una collina ed ha di fronte l'intera catena della Maiella; a destra c'è un piccolo altopiano delimitato sul lato ovest dalla ferrovia costeggiata da una bella pineta. Quando ero ragazzo i campi erano tutti coltivati ora non più, ed a luglio le messi di grano ondeggiavano al vento simulando le onde del mare che ho visto, come tanti miei coetanei, per la prima volta a 16 anni!

Ripensandoci credo di essere stato molto fortunato ad aver vissuto lì i primi anni della mia vita. Godevamo di una libertà pressoché illimitata; c'erano due o tre macchine, molti muli, asini, pecore e mucche. Non c'erano pericoli, scorrazzavamo in lungo ed in largo a nostro piacimento dando sfogo alla nostra curiosità ed inventiva.
Avevamo una mappa aggiornatissima di tutti i nidi della pineta e conoscevamo tutti i tipi di uccelli ed animali presenti in zona. Abili costruttori di capanne ed archi sopperivamo alla mancanza di giocattoli costruendoli col filo di ferro. Chi possedeva due cuscinetti a sfera era considerato fortunatissimo perché poteva costruirsi un monopattino. Eravamo in grado di sopravvivere due o tre giorni mangiando erbe, bacche e tuberi chc conoscevamo, ed uno dei miei divertimenti preferiti era quello di rubare le ciliegie, le prugne e le nocciole nell'ampio cortile di quello che una volta era il signorotto del paese. Tutto era pulito, perfino la discarica perché si buttava ben poco; al massimo si poteva trovare una scarpa, un ombrello vecchio ma principalmente erano rifiuti organici. In realtà una discarica vera non c'era, erano piccoli posti appena fuori dal paese dove la gente buttava i rifiuti. A primavera, ci andavo spesso perché vi nascevano le piantine di pesche, prugne e ciliege. Ero affascinato dal fatto che da un nòcciolo secco venissero fuori le piante di frutta che a me piaceva tanto.
In paese ci si conosceva tutti, noi ragazzi avevamo la sensazione di fare quello che volevamo, in realtà eravamo controllatissimi. Chiunque, zio, zia, conoscente era naturalmente autorizzato a darci una risettata con la minaccia di informare i genitori. Era una specie di famiglia allargata che pare funzionasse benissimo.
Quando il tempo era bello i vecchi si riunivano in piazza allineati su un muretto a prendere il sole. Parlavano con i ragazzini come me dispensando saggezza, ma fra loro parlavano pochissimo. Si guardavano intorno ed a volte uno esclamava: "Eh….si! Il secondo rispondeva "Mah.........! " ed il terzo di rimando "Bah.....!"
Dopo tanti anni ho capito che in quelle tre espressioni lapidarie c'era il discorso di una vita,una sintesi micidiale di "certezze", "dubbi" e “interazione". Era un tirare le somme, ed a giudicare dai loro volti il risultato era, nonostante tutto, positivo.

MIO PADRE

Quel giorno stava falciando l'erba, io lo seguivo mimando i suoi movimenti, ogni tanto si fermava si asciugava il sudore e prendeva dal corno attaccato alla cinta la pietra per arrotare la falce. Ai miei occhi sembrava un gigante, una forza della natura; dopo qualche ora ci sedevamo e lui ribatteva la falce, ricordo ancora le sue grandi scarpe con grossi chiodi sulle suole (le famose scarpe di Popoli che praticamente dovevano durare una vita) che luccicavano al sole.
Scorrazzando per il campo ad un certo punto mi misi a gridare correndo ed ansimando: papà..... papà..... ho visto il diavolo!
Mio padre si alzò di scatto e mi venne incontro pensando a qualche serpentello, lo accompagnai sul posto e scoppiò in una grossa risata.
Il diavolo..... era un grosso bacarozzo nero con le corna, ci rimasi male perché per me la faccenda era molto seria, ma poi cominciai a ridere anch'io e credo che da quel momento si sia incrinato nel mio piccolo il mito dell'inferno e del paradiso. Ovviamente fra una suora e mio padre, avevo scelto decisamente mio padre.